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Chiesa Valdese di Trapani e Marsala - Pentimento e perdono

Ultimo Aggiornamento: 11/10/2009 14:50
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Pentimento e perdono
Written by Administrator   
Domenica 04 Ottobre 2009

Pentimento e perdono

«Se tuo fratello pecca, riprendilo; e se si pente, perdonalo. E se sette volte al giorno pecca contro di te e sette volte torna a te dicendo: “Mi pento”, gli perdonerai»  (Luca 17:3-4) 

Non so farmi un'idea precisa di quanto questo passo del vangelo secondo Luca sia conosciuto: quel che so di certo, però, è che è assai poco praticato. Si tratta di un paio di versetti appena, brevi ma estremamente densi. E uno dei compiti della predicazione, almeno credo, dovrebbe consistere proprio nel “diluire” questa densità, cercando così di fare in modo che le nostre piccole vicende quotidiane possano “assorbirla”. Altrimenti il rischio è che le parole del vangelo ci scorrano addosso, senza che siano capaci di penetrarci, fecondarci e trasformarci. La permeabilità del terreno, difatti, dipende da noi, dalla nostra disponibilità a far sì che Dio lo dissodi e lo coltivi. La predicazione dovrebbe aiutare a rendere le zolle un po' più morbide, per facilitare a Dio il lavoro, per compierlo, così come possiamo, insieme con Lui, con Lei. Ma diluire la densità deve fare in modo, soprattutto, che l'acqua della Parola possa scendere meglio in profondità: per questo la predicazione deve, il più possibile, portare chiarezza e comunicare semplicità. Proviamoci allora insieme con il nostro testo di oggi: e visto che, preso nel suo insieme, si tratta di un testo difficile da sciogliere, vorrei proporvi di sminuzzarlo, prendendo le mosse da quelle che sono le parole-chiave che possiamo incontrarvi. Si tratta di parole che, in fondo, si trovano tutte nel primo di questi due versetti: quattro brevi parole, tanto utilizzate quanto poco comprese perché, credo, poco esaminate.

Più precisamente, come si addice alla mentalità estremamente pratica degli antichi, più che di quattro parole si tratta di quattro azioni: peccare, riprendere, pentirsi e perdonare. Proviamo a procedere secondo l'ordine che il nostro testo ci propone, tenendo bene a mente il fatto che a pronunciare queste parole è Gesù, che le sta dirigendo ai suoi discepoli e alle sue discepole e, quindi, a noi. 

  • Peccare è parola di cui noi donne e uomini moderni abbiamo totalmente perduto il senso. Quando questo succede, c'è un solo modo a nostra disposizione per provare a recuperarlo: tornare al senso originario, dirigersi alla parola come ad uno scrigno che, se saremo capaci di aprire, ci restituirà almeno una piccola parte di ciò che abbiamo smarrito. E in modo assai significativo, la radice del verbo peccare, in lingua greca, rimanda proprio allo smarrimento: Gesù lo sapeva bene e, non a caso, parla spesso del peccatore come di qualcuno che si trova smarrito. Questo lascia trasparire immediatamente un atteggiamento comprensivo: tutto ciò di cui il peccatore o la peccatrice ha bisogno è di ritrovarsi, di riprendere in mano la propria vita per poter poi ripartire. Per questo un atteggiamento di condanna non sortisce alcun effetto: perché alza un muro là dove chi ci sta di fronte chiede uno spiraglio che gli impedisca di soffocare, un sentiero per poter riprendere un cammino interrotto. Trovarsi nel peccato significa percepire la distanza che ci separa da noi stesse, da noi stessi e, per questo soltanto, anche da Dio, che così spesso decide di sostare nell'intimo. 

Chi avverte una distanza da sé non può che avvertirla anche con Dio: e questo, spesso, è il dolore a cui non sa dare un nome e un volto. E per questo, anche, chi si trova nel peccato ha bisogno di incontrare comprensività, non giudizio. 

  • La comprensività, però, non deve diventare un alibi: anche in questo senso Gesù è estremamente chiaro. Se qualcuno si trova smarrito, dice il nostro testo, è necessario riprenderlo. Trovo molto interessante, anche in questo caso, ciò che la radice del verbo greco corrispondente ha da insegnarci: si riprende qualcuno, in verità, perché gli si dà valore; più specificamente, quel valore che lui, lei, da solo, da sola, non è più in grado di darsi. Si tratta di un monito rivolto contro quella dissipazione a cui molto spesso lo smarrimento conduce: ci si perde sempre di più, si prosegue lungo il sentiero che allontana da sé. Chi assiste a questo inabissamento dell'altro è chiamato da Gesù ad arginarlo, a mettere in allarme chi lo sta rischiando: l'ammonimento rappresenta una specie di indicazione stradale, di messa in guardia. Talvolta, infatti, non siamo capaci di rimetterci da soli “in carreggiata”, di riprendere senza alcun aiuto il cammino che può ricondurci all'incontro con noi stessi: abbiamo bisogno che qualcuno ce lo indichi, dimostrandoci, in tal modo, premura, affetto, interessamento e persino stima. Anche quando qualcosa ci viene detta a muso duro da chi può permettersi con noi una certa confidenza: e tante volte più è duro il tono, più sono profondi la considerazione e l'affetto che ha nei nostri riguardi chi ci sta riprendendo.

Si tratta comunque, ancora, di una “prima fase”: chi ci ammonisce, infatti, può al massimo indurci a riflettere su un nostro atteggiamento, ma non può in alcun modo sostituire quello che è il lavoro che ciascuno è chiamato a fare con se stesso. 

  • A questo compito estremamente personale si riferisce l'azione successiva, non a caso l'unica di tutto il nostro versetto che venga espressa attraverso un verbo riflessivo: pentirsi. Nessuno può davvero indurre qualcun altro al pentimento: si tratta sempre di una questione tra sé e sé, di uno spazio il cui l'accesso è vietato a chiunque salvo che a noi stessi, anche se spesso noi siamo i primi a non volerci entrare. Anche questa volta, il greco ci riserva delle sorprese: il verbo del pentimento indica, letteralmente, la volontà di cambiare mentalità, di rinnovare la comprensione delle cose. Ecco perché, anzitutto, un pentimento autentico richiede consapevolezza: per potersi pentire sul serio è necessario aver prima riflettuto, essersi resi conto di, aver compreso che. Ma anche se questa coscienza è indispensabile, non è comunque sufficiente: sappiamo bene, infatti, che renderci conto che qualcosa non va non significa necessariamente essere capaci di cambiare il nostro comportamento. Eppure è proprio alla luce dei nostri atteggiamenti che possiamo essere certi della sincerità di quello che spesso chiamiamo pentimento senza che lo sia: se sono pentito, cambio; altrimenti mento a me stesso. Ecco perché, per comprendere la natura del pentimento, dobbiamo guardare avanti e non indietro.

Lo spiega benissimo, con il suo consueto acume, Erri de Luca, citando le considerazioni di un antico rabbino:

Rabbi Nachmann sosteneva che il pentimento non era un impulso di distacco, lo slancio che fa staccare il tuffatore dalla sporgenza, ma il sentimento per il quale uno si ritrova davanti all'errore [anche questa, in verità, parola che indica smarrimento, poiché viene da errare, procedere senza una meta], al torto, e per la prima volta non vi ricade, non torna a commetterlo. Il pentimento è un progetto che riguarda il futuro, più che un rammarico rivolto al passato (Tratto da: Nocciolo d'oliva, Messaggero, Padova, 2002) 

Dovremmo imparare a guardare al futuro di un cambiamento che si è prodotto in noi e nel nostro agire per comprendere se siamo stati davvero capaci di pentimento: lasciare lo sguardo incollato ad un passato che non cambia non fa cambiare neanche noi. Chi si pente guarda dritto davanti a sé, verso ciò che da oggi in avanti gli è possibile fare in modo diverso. 

  • E qui viene l'ultima sorpresa contenuta nell'appello che Gesù ci rivolge: se qualcuno si pente e, in particolare, se si pente di qualcosa che ha fatto a te, direttamente, tu gli perdonerai; ovvero, dando sempre un'occhiata al greco, gli condonerai il debito che ha con te. Dico gli e non lo, perché non siamo chiamati a perdonare lui o lei, ma il suo gesto: è di quello, infatti, che si è pentito ed è di quello che dobbiamo perdonarlo.

A ben guardare, infatti, quel che non possiamo o non sappiamo perdonare, il più delle volte, non è tanto la persona, quanto il gesto che ha compiuto. Ma l'affermazione di Gesù è, se possibile, ancora più sconvolgente: tu gli perdonerai perché si è pentito e per questo soltanto. In sostanza, chi si pente non deve delle scuse: se è sincero, basta il suo pentimento. “Lui fa la sua parte”, dice Gesù, “tu fa' la tua: lui si pente, tu perdonagli”. Insomma: se vuole cambiare, tu non togliergli la possibilità di farlo, non fargli mancare la tua fiducia, non inchiodarlo al ricordo che hai di lui e della sua azione. Riprendilo, rendilo attento, prima; perdonagli poi. Sembra un ragionamento guidato dall'indulgenza ma, a ben guardare, è invece fondato sulla responsabilità: perdonagli, sì, ma solo e soltanto se si sarà ravveduto. Senza questo il perdono non è necessario perché, in fondo, non è richiesto. Chi non si pente non può ottenere il perdono perché non sa richiederlo e non sa richiederlo perché non sa vedere il proprio errore. E, se una volta ripreso, reso attento, non è ancora in grado di riconoscere il lo sbaglio commesso, il perdono non potrà mai raggiungerlo. Tutto questo perché il perdono va prima richiesto che accordato: è una necessità di chi lo implora, prima che una concessione di chi lo accorda. Per poter ricevere il perdono, ci insegna Gesù, dobbiamo prima sapere di averne bisogno: così soltanto Dio stesso ci si farà incontro e ci ricondurrà verso quella parte di noi che avevamo smarrita.

Past. Alessandro Esposito – culto del 4 ottobre 2009

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